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EXTRACOMUNITARIO!


-Dott.ssa Valentina Trapanà-

Gran brutta malattia il razzismo. Più che altro strana: colpisce i bianchi ma fa fuori i neri! (A. Einstein)

Sono tante le differenze millantate tra il Nord ed il Sud dell’Italia al punto che a volte facciamo fatica a sentirci tutti connazionali! Ma c’è un fenomeno che accomuna l’intero nostro Paese, ed è quello dell’immigrazione, tanto che diventa sempre maggiore il numero di stranieri che popolano le nostre città.
In qualunque spiaggia d’Italia, sia che si tratti delle settentrionali grandi e piene di movida o delle calde ed assolate meridionali, a chiunque è capitato di incrociare il venditore ambulante, l’extracomunitario che vuol vendere i cd, le borsette o i libri ai vacanzieri. E la situazione non cambia passeggiando per le città dove, ben sistemate sopra grandi teli di plastica, poggiati sui marciapiedi, è facile trovare ogni tipo di mercanzia!
La differenza sta nella reazione che ciascuno ha davanti a questo spettacolo: c’è chi ritiene che tutto sommato non facciano nulla di male e che alla meno peggio si limita a non acquistare nulla da loro; e c’è chi invece non ritiene sicuro, necessario e gratificante lo spettacolo che gli si propone.
Durante il mio tirocinio, ho incontrato Papis, un extracomunitario, e mi è sembrato potesse essere interessante sentire la sua storia.
Papis è un ragazzo di 23 anni, proveniente dal Senegal. E’ arrivato in Italia circa un anno e mezzo fa; è uno dei tanti che spesso vediamo in televisione mentre vengono soccorsi dalla guardia costiera a bordo di gommoni in precarie condizioni. Mi racconta di aver lasciato in Senegal la sua famiglia: i suoi genitori e 5 tra fratelli e sorelle per raggiungere un Paese che credeva essere pieno di lavoro e di ricchezze. Credeva di poter far fruttare in qualche modo il diploma preso nel suo paese, ma arrivato qui si è accorto che la sua istruzione non aveva nessun valore, perciò l’unica alternativa che gli si è prospettata è stata una sola: il venditore ambulante. Racconta il motivo per cui è arrivato i Italia, ovvero quello di racimolare una quantità di denaro sufficiente per poter garantire dei periodi di maggiore tranquillità ai suoi familiari e poi ritornare il Senegal; invece si rattristisce parlando del fatto che divide una stanza con altri suoi compaesani in un accampamento profughi. Da quando è qui però la sua situazione è parecchio cambiata, non è riuscito a mettere da parte neanche i soldi per poter ritornare dai suoi familiari che gli mancano tanto. Quando gli chiedo cos’è che gli manca di più del suo paese mi risponde, oltre ai suoi familiari, anche i cuginetti, dai quali si è staccato quando erano molto piccoli e che non sa che età avranno quando riuscirà a tornare in Senegal. Mi racconta del clima caldo, della natura e dei paesaggi mozzafiato che ha lasciato ma che rivede quando la sera chiude gli occhi prima di dormire. Alla mia domanda su come si trova in Italia, risponde iniziando a parlare del suo lavoro. Racconta che ci sono giorni in cui riesce, vendendo braccialetti in spiaggia l’estate e vicino ai centri commerciali in inverno, a racimolare qualcosa che mette da parte, mentre ci sono giorni in cui non riesce a guadagnare neanche un euro, e sono quelli in cui si scoraggia maggiormente perché vede il suo obiettivo di ritornare in Senegal allontanarsi. Aggiunge però, senza che io glielo chieda, che questo diventa un aspetto marginale rispetto ai problemi di integrazione che affronta. Gli chiedo quindi di spiegarmi meglio, per non rischiare che la discussione cada sul qualunquismo. Papis mi risponde prontamente che la cosa che vorrebbe di più, in questo periodo di lontananza da casa, sarebbe di potersi integrare, di poter fare amicizia con i suoi coetanei ed essere visto per ciò che è, ovvero un giovane di 23 anni pieno di cose da dire, di idee e di interessi, e non solo come “Quello di colore” che vende i braccialetti. Ora che inizia a parlare e a comprendere meglio l’italiano, avrebbe piacere di frequentare i ragazzi italiani, a condividere le sue esperienze con le loro, a crearsi una cerchia di amicizie che non siano solo i ragazzi del centro di rifugio, per non sentirsi un emarginato. Racconta con orgoglio di quando d’estate riesce a fare amicizia con dei gruppi di giovani che sono in spiaggia, e con i quali si ferma a chiacchierare, indipendentemente dal fatto che questi comprino o meno i suoi braccialetti. Racconta quelli come alcuni dei momenti preferiti da quando è qui, tanto che il suo bisogno di amici fa passare in secondo piano il suo bisogno di denaro.
Ci ha tenuto a precisare, senza che glielo chiedessi, che non ha mai accettato di fare alcun tipo di lavoro illegale, che non fa uso di droghe e che tanto meno ne venderebbe mai a dei ragazzi che potrebbero avere l’età dei suoi fratelli; ma che nonostante tutto, spesso viene guardato con sospetto dalla gente, “come se essere nero è uguale ad essere cattivo!”
In chiusura del nostro colloquio, mi ringrazia per aver parlato con lui, di aver sentito la sua storia e di raccontarla.
Questo articolo non ha come scopo quello di far cambiare idea a nessuno riguardo alle proprie convinzioni, quanto piuttosto ricordare che i bisogni di vicinanza, di amicizia, di affetto sono universali, a prescindere dalla parte del mondo in cui si è nati.

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