Dott.ssa Feliciana Pizzuti
L’etimologia
del termine educare
pone il primo accento sull’importanza e la difficoltà che un
processo così complesso porta con sé: “educare” deriva infatti
dal termine latino “ex-ducere” che letteralmente vuol dire
“tirare fuori”. Ma spesso si crea una confusione in merito,
assumendo la tendenza a voler inculcare nei bambini e nei ragazzi
nozioni, idee e modi di pensare. La funzione degli adulti dovrebbe
invece essere quella di aiutarli a crescere “tirando fuori”
quello che hanno dentro.
I
principi cardine che permettono di raggiungere tale obiettivo sono
l’accoglimento, il prendersi cura dell’altro al fine di
instaurare relazioni significative, coerenti ed affidabili.
In
alcune famiglie tale processo appare difficile o compromesso: così
come Biancaneve si ritrova in casa una strega cattiva ed è costretta
a ricercare un posto sicuro ed accogliente, così alcuni minori hanno
bisogno di ritrovare un luogo in cui vivere la propria fanciullezza o
adolescenza nella spensieratezza, vivendo la quotidianità in un
contesto relazionale ed affettivo diverso, in grado di accoglierli,
accudirli e condurli a piccoli passi ad una ri-elaborazione dei
vissuti precedenti. Il posto ideale per ogni ragazzo dovrebbe essere
la propria famiglia, ma quando questa diventa disfunzionale,
l’intervento di enti superiori si rende necessario: è così che
entrano in gioco strutture quali case famiglia o comunità per minori
a rischio, in cui il “rischio” è appunto determinato
dall’interiorizzazione di modelli che potrebbero condurre a
comportamenti devianti o comunque inadeguati al vivere in società.
In questi termini il processo sembra semplice e lineare, ma la realtà
risulta essere diversa: quando i minori arrivano ai servizi, nella
maggior parte dei casi vivono il cambiamento come negativo, non
capendone le motivazioni e percependo l’intero sistema composto da
servizi sociali ed educatori come “il cattivo” che l’ha portato
via dal suo nido. Il tutto porta con sé la totale assenza di fiducia
verso chi è di fronte e, di conseguenza, al difficile instaurarsi
della relazione significativa, stabile e coerente di cui sopra e che
è la condizioni indispensabile affinché si possano modificare,
attraverso esperienze reali, i modelli interiorizzati nelle
esperienze passate, che veicolano continuità al rischio e alla
violenza e non consentono di pensare o programmare una vita diversa.
I
minori vivono così un’ambivalenza affettiva nei confronti degli
educatori che percepiscono da un lato come “cattivi”, dall’altro
come persone che sono lì per loro. Solo quando le difese crollano e
si instaura un clima di fiducia inizia il vero processo di
educazione, che presuppone non solo l’accudimento e la protezione
del minore, ma soprattutto il sostegno nel raggiungimento
dell’autonomia e dunque l’assunzione di responsabilità rispetto
al futuro. Il tutto supportato dallo sviluppo di una sana autostima,
che può essere raggiunta prendendo coscienza delle proprie
potenzialità ed inserendosi in modo positivo nella società.
In
concreto si tratta di offrire al ragazzo la possibilità di
sperimentare una quotidianità mai vissuta, fatta di attività
semplici, quali la frequenza a scuola, l’attività ludica e
sportiva, la partecipazione all’oratorio, attività che favoriscono
l’instaurarsi di relazioni stabili e coerenti sia con i pari, che
con gli adulti di riferimento, e che in qualsiasi altro contesto
risulterebbero essere la normalità. Nel processo educativo gli
educatori non si sostituiscono agli affetti familiari, ma si pongono
come mediatori.
È
fondamentale inoltre insegnare loro a fare da soli, così come
sosteneva Confucio: “Dai
ad un uomo un pesce e lo sfamerai per un giorno. Insegna a un uomo a
pescare e lo sfamerai per tutta la vita”.
Ed
è proprio questa la soddisfazione più grande per chi lavora in
questo settore: la
bellezza di un sorriso, di uno sguardo o di un abbraccio di qualcuno
che ti ringrazia per il “solo” fatto di “esserci stato”.
Feliciana Pizzuti, laureata presso l’Università
degli Studi di Padova nel 2010 in Psicologia Clinico-Dinamica, con
tesi dal titolo “Il corpo riflesso allo specchio: quando la propria
immagine fa star male”, in cui ha affrontato le problematiche adolescenziali
in merito ai disturbi alimentari. Negli ultimi due anni ha lavorato
in qualità di coordinatrice presso una Comunità per minori a
rischio, lavoro che la ha portato a più stretto contatto con
problematiche familiari e personali di bambini ed adolescenti che
vivono in struttura.
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